Risacca #5

Una risacca diversa dal solito. Anomala. Risospinta più fortemente. Un po’ dolorosa forse. Più personale. Scusatemi…

Una risacca che sbatte fragorosa sulle ali degli aerei in attesa qui fuori. Sono davvero enormi. Sono maestosi. Ora che li osservo ne rimango affascinato e scorrono nella mia mente immagini di color seppia di quei macinini con piani e piani di ali pesanti con cui i pionieri riuscirono a compiere le prime centinaia di metri di planata…ma non è questo ciò di cui volevo parlare…o forse qualcosa c’entra?!

La voglia di volare…in tutti i sensi…è incredibile come ancor oggi che l’aereo è divenuto uno dei mezzi comuni per spostarsi da un luogo ad un altro riusciamo a rimanere magicamente incollati col naso accartocciato sul vetro nel godere del decollo di un aeroplano. Un esempio di pesantissima eleganza. Accompagnato da un rombo pauroso…

Quante emozioni si possono provare in un aeroporto…penso non mi basterebbero le risacche di ogni singola onda su ciascuno scoglio delle spiagge sparse per il mondo per poterne compiutamente descriverne le sfumature. Senza contare la loro purezza e profondità. Quando entro in un aeroporto, non importa dove mi stia dirigendo, sale in me quella frizzante emozione che solletica la mia fantasia. Mi sembra sempre la prima volta. Il tutto comincia qualche ora prima della partenza, quando mi ritaglio almeno un’ora prima di recarmi in aeroporto: è un momento di sospensione totale. Il tempo non scorre, il pensiero si annulla, il silenzio penetra nella testa anche con la musica a tutto volume. Quel momento che precede, perché no, qualsiasi grande evento, in cui le aspettative stanno aspettando solo di venir appagate o miseramente distrutte dopo aver cozzato fragorosamente contro il vetro della realtà. Un pizzico di preoccupazione al check-in, poi…timore di aver dimenticato qualcosa, che il bagaglio sia troppo pesante, troppo grande…l’agitato levarsi la cintura ed il cappello al controllo. Per far presto sperando di non aver lasciato alcunché nel bagaglio a mano…

E quando, poi, tutta questa frenesia cessa…supero l’ultimo controllo, mi siedo al gate ed attendo…beh…le mie facoltà riprendono. Analizzo quello che ho visto e sentito sino a quel momento…mi piace immaginare la storia di alcune di quelle anime che popolano assieme a me in quel momento questo porto moderno. Prima di tutto gli occhi…occhi pensanti, pesanti, tristi, vitrei, socchiusi mentre la testa poggia sul petto del compagno affianco…ogni tipo di occhi…potrebbero farne una libreria…di tutti i colori…di tutte i gradi di umettamento…in aeroporto non ti puoi nascondere. Lasci sgorgare la tua emozione…lasci che le saline gocce graffino quei fragili specchi senza porvi troppa resistenza. Un anziano signore, dal viso profondamente solcato dalle rughe, delle mani seccate, probabilmente dalle intemperie…stringe incerto in una di queste un minuscolo trolley…o forse minuscolo appare in confronto alla sua imponente stazza…nell’altra il passaporto ed una carta d’imbarco stropicciata, un po’ come la sua faccia. Con il pollice accarezza nervoso il bordo di questa. Mi ricorda mio padre al funerale del suo di padre: mani conserte dietro la schiena ed un fazzoletto del quale ben poco ne era rimasto al termine della funzione…sbriciolato dalle sue ruvide dita da orgoglioso operaio che sfregavano sulla cellulosa…potevo sentirne il fruscio…fastidioso…doloroso…

Ecco, l’anziano signore si volta completamente ora…mi accorgo solo ora di quanto bene i suoi occhi si accompagnino alle nervose dita…sono grondi…ed arrossati…seguo il suo sguardo che cerca quello di una signora tra le persone rimaste a salutare i cari in partenza. Lei non piange…le donne son sempre più forti degli uomini. Lei è forte per entrambi. Mi convinco che si tratta della figlia. Lui deve partire, deve tornare nella sua città. Non era mai stato troppo d’accordo con la scelta di Adeline di trasferirsi dalla periferia di Vancouver a Montreal…era atterrato un po’ titubante in questa caotica e sconosciuta città. Ma gli occhi gli si erano riempiti di lacrime due volte durante questo viaggio: alla vista della figlia ad attenderlo alla corsia degli arrivi e alla del sorriso ieratico sul volto di lei ora che stava partendo. Avrebbe voluto scavalcare tutte le corsie, correrle incontro, darle un altro abbraccio…per osmosi trasferire tutto il suo affetto in lei…e di contro rubare un pezzo della sua anima e portarsela con lui sulla costa pacifica.

Perché di una partenza in aeroporto, il primo rimpianto che rimane è quello di non aver dato un abbraccio in più…di non averlo dato abbastanza a lungo…di non aver stretto a sufficienza a presa…di non aver respirato a sufficienza il profumo dello shampoo o del dopobarba…che i polmoni potrebbero dimenticarsene a lungo andare…ripassiamo la posizione di tutti i nei e le lentiggini. Ci serviranno poi per ricostruire a memoria il volto, quando lontani e nei momenti in cui avremmo bisogno solamente di sentire il rumore del respiro di quella persona affianco a noi. Cerchiamo di riempire i nostri pori dell’essenza di colui che parte o di colui che rimane. Le emozioni in questo momento di distacco non sono troppo diverse nei due casi.

Lascio sempre molto sfumati e velati i riferimenti ad episodi personali, ma non posso non pensare a come abbia vissuto distacchi e speranze nelle mie ultime visite ad aeroporti del mondo negli ultimi sei mesi. E forse mi interrogo su quello che ho appena scritto…sulla profondità e verità delle emozioni che vengono espresse in questo luogo, amplificatore “naturale” di sensazioni. Certe persone sono forse solo più aride delle altre…o meno sincere di altre…per cui riescono nella simulazione molto meglio di altre. Questo non lo so…non è un atteggiamento che mi appartiene e ne sono davvero felice.

Posso solo aprire le narici completamente e lasciare entrare l’odore della pelle delle sedie su cui sto attendendo che il mio volo venga annunciato. Avvertire il nervosismo nel ticchettio dei tasti spremuti un po’ tropo fortemente dai polpastrelli mentre scrivo queste righe intrise di ricordi agrodolci…sentire le guance inumidite…il frontino del cappello calcato a fondo sulla testa per nascondere queste due sorgenti. Ed in tutto questo un fastidio. Una sensazione di dover comunque pensare ad affrontare certi demoni che, a distanza, parevano nemmeno esistere. Mi infastidisce il bambino che dispettoso sale e scende dalle seggiole e non rispetta il padre che, goffamente, cerca di trattenerlo, temendo il giudizio degli altri passeggeri in attesa. Mi irritano le due ragazze che masticano a bocca aperta il panino di fronte a me. Mi esacerba il ragazzo che parla con una voce un po’ troppo stridula dietro di me col padre in un francese quebecois. Per non parlare del ragazzo che si è appena seduto pesantemente con lo zaino ancora sulle spalle, qui di fianco a me…

E poi….alzo lo sguardo…guardo fuori…è scesa la notte già…mi ero seduto che il sole ancora illuminava la pista…ed ora…la coperta stellata è stata stesa, a conciliare il mio volo. A rassicurarmi. Le lucine in lontananza della città tremolano per il calore che si alza dall’asfalto. Piccole candeline su cui soffiare. Un desiderio per ognuna di esse. Forse è questo l’aeroporto…l’anticamera del castello dei sogni. I sogni da raggiungere portati dalle ali metalliche…forse poco romantiche (mi perdonino i futuristi, ma un’ala piumata rimane comunque incredibilmente più affascinante)…ma il loro dovere lo compiono a puntino. Tanti sogni si muovono negli aeroporti, su gambe più o meno stanche o vecchie. Posso solo giocare ad indovinarli. E nessuno mi darà mai la risposta esatta.

aeroporto

Lascia un commento