Risacca #39

Alvaro stava guidando: lo faceva spesso quando non riusciva ad inquadrare la situazione in cui si trovava. Vagava in cerca di un tratto di asfalto che risuonasse alla frequenza dei suoi pensieri al passaggio del battistrada. Ogni uscita era una scommessa, non sapeva se avrebbe trovato quella toppa magica di catrame durante il tragitto. Ed il più delle volte non era così. Dopotutto non era tanto stolto da sognarsi di ricevere l’illuminazione per la soluzione dei suoi problemi da un brevissimo viaggio in automobile. Ma la disillusa speranza gli riempiva comunque il cuore, alleggerendolo un poco. Stava rientrando questa volta più sconsolato del solito. Le note delle sue canzoni non erano riuscire a scuotere la rugiada salata dalla foglie della sua anima. Gli occhi erano rimasti asciutti e pulsanti. Permanevano quelle odiose sensazioni di livore ed impotenza: formavano un unico denso grumo calcato sul fondo dell’esofago. Alvaro era indeciso se continuare a provare a spingere in basso il pesante silenzio o premere con forza sulla bocca dello stomaco sino a ritrovarsi tra le mani il dolore. Una peristalsi indotta che potesse liberarlo una volta per tutte. L’inibizione era tanto persistente da esser divenuta occlusione fisica:  l’impressione era quella di un gomitolo lercio ed ingombrante incastrato in una tubatura, ed ogni infruttuoso tentativo di estrarlo dallo stretto pertugio aveva sospinto quell’ammasso ancor più in profondità, nell’oscurità. Così si sentiva Alvaro. Le sue dita erano ormai tremanti dalla frenesia di voler cavare il tappo delle emozioni di là, era talmente esausto dai vani tentativi che i suoi movimenti erano divenuti imprecisi, e continuava maldestramente a sbattere da una parte all’altra delle pareti sospingendo fatalmente il gomitolo. Non sapeva più come e cosa fare. Quel gomitolo altro non era che un’inestricabile matassa di tutti i sentimenti che albergavano in lui. Mille colori e sfumature rendevano quella maledetta palla sinistramente appagante. Erano tutti sentimenti onorevoli. Amore, compassione, altruismo, passione, gioia di condividere. Ma erano tenuti assieme da una melassa che si era accumulata nel tempo ed a cui non aveva dato peso. Non capiva la natura di quella massa ed ora doveva farci i conti. Un cancro da estirpare senza avere idea delle armi da poter utilizzare.

La sensazione di nausea era insopportabile e si acuiva mano a mano che si avvicinava al portone di casa. Non apparteneva nemmeno più a quello scorcio di mondo. Non era più parte di tale paesaggio. Un arbusto amante del sottobosco soffocato da invadenti, enormi palme. Il terreno sabbioso non sapeva più nutrirlo come ne avrebbe avuto bisogno, precludendo ogni sentore di petricore. Le ampie fronde delle palme gli impedivano la vista delle amate stelle la notte, così il suo passatempo di collegare quei puntini luminosi non gli era più possibile. Odiava alternativamente l’ostile ambiente e le sue radici. Odiava, su tutto, chi aveva lasciato i rocchetti dei fili delle sue emozioni tutti svolti, permettendo che ne nascesse un grumo doloroso ed appiccicoso. Odiava se stesso per ricordare con piacere quelle mani che giocavano sbadatamente con i rocchetti, a tratti ammaliate da colori e consistenza, a tratti annoiate. Ed ora, ora non aveva più filo per poter far scorrere la spola sul telaio della vita. Era in cerca dell’arcolaio, che sbrogliasse la matassa. Sarebbe tornato a filare. Sarebbe tornato garzone nella filanda delle emozioni, lui che ormai era felicemente padrone dell’arte del tessere. Un filo alla volta, Alvaro avrebbe riempito nuovamente il suo cassetto da filatore dei colori più vividi ed esotici. Doveva solo avere pazienza, e calmare le sue abili mani.

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