Alla deriva

Cerco di stare calmo e rilasso i muscoli dell’addome. Avverto solo lo sciabordare delle onde sulla chiglia. Riesco ad aprire appena un occhio, a fessura. L’altro è invece completamente tumefatto, già pulsa ed il tessuto si è gonfiato a tal punto da impedire alla palpebre di allontanarsi l’una dall’altra. Sento un dolore sordo alla tempia destra mentre le gocce salmastre mi riempiono i polmoni impedendomi di respirare a dovere. Con una mano mi fascio il ventre, mentre l’altra è puntellata a terra su di un’asse madida e fredda. I miei vestiti sono divenuti un’armatura tanto pesante quanto futile, mi si appiccicano sulla pelle strappandomi a manciate il calore direttamente dalle ossa. Mentre provo a concentrarmi sul mio corpo ed a trattenere le energie che senza fatica trovano la via d’uscita dalle membra, la mia mano viene sfiorata da un algido tocco. È quello che rimane della boma. Seguo in tutta la sua lunghezza il pezzo di legno, mentre il rollio lo allontana di nuovo da me, fino a quando il mio sguardo malconcio si perde nel buio a pochi passi di distanza. Intravedo soltanto qualche riflesso guizzare sulla tavola scurissima che mi circonda. Piccoli occhiolini di scherno che mi fa la Luna, che da lassù si gode lo spettacolo. Provo a sollevare il mio corpo dal ponte ammaccato, ma quello che ricevo è un pugno ben assestato dall’interno della cassa toracica, a ricordarmi dell’incontro ravvicinato che avevo avuto pochi minuti prima con il parapetto. Un grugnito di dolore misto a desolazione mi rimbomba in bocca, e mi riaccascio sul ponte. Non provavo un male tanto diffuso nel corpo dal giorno dell’incidente in auto con Dalila. Almeno ora il dolore era solamente fisico. Al tempo, ogni sofferenza corporea era stata azzerata dalla disperazione di trovarmi ad ossequiare il sarcofago della sua anima disteso affianco a me, scolpito in una smorfia ieratica che non le apparteneva e che non rendeva onore alla sua infinita bellezza. Ricaccio quel ricordo spaventoso e raccolgo le forze che ancora sono rimaste nelle mie fibre per alzarmi sui miei piedi. Ora in posizione eretta mi rendo conto di trovarmi nel bel mezzo del nulla. Scruto lentamente tutto l’orizzonte in cerca di un qualsiasi punto di riferimento, senza però che una luce, anche fioca, mi sventoli il fazzoletto di lontano a rincuorarmi della sua presenza. Mi accorgo solo ora di quanto avessi osato poche ore prima a decidere di prendere il largo nonostante tutte le mie cellule stessero cercando di trattenermi a terra.

Quella furia era durata non più di dieci minuti. Senza avvisaglia alcuna il cielo s’era fatto plumbeo ed io non avevo nemmeno fatto in tempo a distrarmi. Mi ero accorto dell’avvicinarsi di quello che avevo stimato essere un leggero stillicidio solo per un alito di vento che aveva accarezzato con un poco più di veemenza le mie labbra. O forse quel vento soffiava da ormai più di venti minuti, mezz’ora forse, ma il mio sguardo era tutto rivolto dentro di me. Stavo manovrando il timone della mia rabbia più che quello della mia barca. Quando finalmente la mia anima aveva smesso di guardarsi riflessa nello specchio delle retine per farsi da sola la predica, era ormai troppo tardi. Non ho ancora imparato a scindermi ed abbandonare le emozioni rotolare solitarie senza rincorrerle disinteressandomi di ciò che accade attorno.

La mattina era stata delle peggiori, sin dai primi secondi. Mi ero sollevato affondando rigido i pugni nel materasso, con il cuore che stava saltando la corda freneticamente all’altezza della gola. Mi capita delle volte di alzarmi così, semplicemente con delle sensazioni. No, con UNA sensazione. Le gambe accompagnano la rigidità delle braccia con dei tremori glaciali ed incontrollabili. Sapevo che la giornata avrebbe accolto un evento di una qualche sorta, ma non riesco mai a definire i contorni ed i colori del tranello che mi attenderà. Le odio queste sensazioni, con tutto il mio cuore. Troppe volte hanno segnato le mie giornate solo fino a culminare nella constatazione che, sì, qualcosa alla fine era successo. E proprio questa mattina mi ero alzato con l’odioso canto stonato che mi avvisava dell’imminente sciagura. Il breve percorso al bagno e poi alla cucina mi era sembrato infinito, come se qualcuno nella notte si fosse divertito ad infilare qualche piastrella in più tra quelle che avevamo fatto posare solo tre anni fa. Ero riuscito a godere, nonostante il martello pneumatico che batteva sull’anima, della semplice colazione. Mi stavo calmando. Avevo preparato il caffè premendo la polvere il più fortemente possibile nel filtro. E dopo aver accesso il fornello, prima di riporre il barattolo nella dispensa, avevo infilato due dita in quella sabbia scura: mi piace farlo alcune volte, massaggiare tra i polpastrelli i grani più o meno sottili di quel macinato per impregnare le dita del loro aroma. Portarle poi al naso e riempire i polmoni per un attimo di quel balsamo. Così avevo fatto questa mattina. D’altronde, le avevo promesso che avrei imparato a non dare peso a queste sensazioni, perché era davvero inutile spaccarsi la testa per comprendere cosa in quella giornata sarebbe andato storto. Così mi ero vestito ed avevo lasciato alle mie spalle la porta d’entrata. Non avrei dovuto farlo quel giorno, ora lo so, mentre mi commisero su questo legno pesante.

Avevo passato la mattina ad osservare l’angolo in alto a destra dello schermo del mio portatile. Come se attendessi che una qualche ispirazione nascesse da quel minuscolo spazio virtuale. La passione per la grafica mi aveva abbandonato, irrimediabilmente. Aveva staccato la spina un poco alla volta spegnendo prima uno ad uno i pulsanti della creatività. Tutto ciò a cui avevo dedicato anni di studio e i primi miei risparmi, oltre a quel prestito che i miei avevano voluto farmi a fondo perduto, tutto stava venendo vanificato dall’inerzia del mio spirito artistico. E le scadenze si avvicinavano sempre di più. Avevo mendicato giorni in più ormai a quattro clienti, i quali si aspettavano a breve il logo della loro attività rimaneggiato, la bozza per il volantino della serata a tema “Ranocchi e Principesse” -ma chi si inventa di fare una serata con un tema così poi?!-, la locandina del prossimo concerto di Claire Doonsey e il layout del sito di e-commerce per attrezzi agricoli. Non mi mancavano certo le opzioni ed avrei potuto sperare di avere almeno un’ispirazione per mezzo di questi progetti. Ma tutto quello che ero riuscito a fare quella mattina era stato imparare a memoria i pixel di quello schermo colorato, sbadigliando di tanto in tanto per riuscire a non sbattere il naso sulla tastiera. Sconsolato mi ero convinto che mettere piede fuori dall’ufficio mi avrebbe fatto bene. Mi ero, così, diretto al bar poco distante, camminando lentamente, cercando di acuire un poco i miei sensi. Mi piace chiamarla “meditazione sensoriale” e mi ha sempre aiutato a ritrovare un po’ di equilibrio momentaneo. Ad ogni passo stavo poggiando tutta la lunghezza del piede, prestando attenzione alla rullata in ogni momento, concentrandomi sul sangue che dal tallone alla punta delle dita stavo rispedendo verso l’alto del mio corpo. Sentivo quasi il flusso caloroso risalirmi le gambe. Mentre le mani stavano accarezzando il tessuto interno delle tasche dei pantaloni. Da bambino mi piaceva osservare come quel tessuto fosse diverso da tutto il resto del capo d’abbigliamento. Non aveva il permesso di uscire da dove stava, non poteva esperire quello che il resto delle fibre che formano il pantalone si trovavano ad affrontare tutti i giorni. E mi chiedevo se fosse più infelice l’esistenza del pantalone intero o delle tasche. Il primo per poter godere del contatto con la vita si vede schizzare addosso fango umido, è sferzato da folate gelide e scolorito da un sole troppo intenso. Le seconde rimangono di un colorito più vivido di solito, perché se ne stanno nascoste, lontane dai pericoli del mondo, ma non sanno cosa voglia davvero dire poggiare sull’erba durante una gita in montagna. A quali cose buffe pensavo quando ero più piccino. Non che fossi cambiato troppo ora. Mi piaceva ancora camminare solo sulle strisce bianche degli attraversamenti pedonali, in auto guardavo fuori dal finestrino aspettando che i filari delle viti si allineassero ai miei occhi per poter vedere un attimo di puro ordine sotto il mio sguardo e di tanto in tanto facevo sbattere la lingua sui denti, dentro la bocca, assicurandomi che il numero delle battute sulla parte destra fosse uguale a quello sulla parte sinistra. Chissà quante altre persone hanno queste piccole manie che non condividono con altri. Probabilmente pensano di essere le uniche al mondo ad averle e non vogliono mostrarsi in possesso di queste piccole pazzie, perché chissà cosa potrebbero pensare gli altri pazzi attorno a loro. A tutto questo stavo pensando nel breve tragitto dall’ufficio al bar, mentre i miei occhi roteavano da una persona ad un’altra sui marciapiedi, spiando le espressioni ed i colori dei pensieri negli occhi altrui. Non avevo mai capito come si potesse riuscire a “non vedere qualcun’altro” quando se ne incrocia il passo. Anche immerso nei miei pensieri i miei occhi saltellavano da un corpo all’altro. Anche quella mattina. Riuscivo quasi ad indovinare l’odore del profumo di quelle persone. Ed il nome di chi li amava. Ed il nome del loro amante. E le lacrime versate da quei cristalli fragili. Stavo giocando ancora a rimbalzare da una spalla all’altra con lo sguardo e il mio animo stava per scordarsi di Quella sensazione, quando ecco che era successo. La ragazza su cui stavo riposando la mia mente, aveva alzato il volto. Mi stava guardando. Il volto le era stato plasmato attorno ai due soli scuri. Era così perfettamente asimmetrico il modo in cui i capelli le cadevano sulle guance. Tutto il mondo il mondo avrebbe dovuto adottare la larghezza delle sue labbra come unità di misura. La rullata del mio piede non era più in controllo, le mani avevano smesso di accarezzare il tessuto delle tasche e tutti i sensi erano rivolti a percepire anche una sola molecola del profumo di lei. Aveva cominciato a piovere.

Non lo so quanto tempo fosse passato del momento in cui avevo dimenticato che il bar era il mio obiettivo. L’unica cosa che so è che lei si era fermata, lasciando scivolare le sue mani lentamente dalla giacca a vento. Si era portata quelle morbide propaggini a sciogliere la sciarpa dal collo. Scoprendo un altro piccolo pezzo di quel meraviglioso puzzle che era la sua pelle nuda. Stavo già imparando ad amare quel neo appena sopra al labbro e mi chiedevo quante altre piccole macchiette avesse sul corpo e quanto tempo ci avrei messo ad imparare quale fosse la più buffa e quale mi sarebbe stata più simpatica. Aveva poi chinato la testa indietro, accettando di buon grado che le gocce di pioggia le massaggiassero gli zigomi, rilassando tutti i muscoli. Stava accadendo tutto così rapidamente. Credo di essere stato in religiosa apnea per tutta la durata dell’evento. Fino a quando ella aveva avuto l’impertinenza di scollare le sue labbra l’una dall’altra per mostrarmi per un secondo una serie di bianche perle. Stavo precipitando. Mi mancava l’aria. Avevo immediatamente rivolto il mio sguardo altrove, a cercare di dissimulare goffamente il mio rimirare. Aveva già smesso di piovere.

Il mio corpo aveva ripreso a muoversi e non sapevo dove stesse portando la mia anima. Mentre sentivo il peso dello sguardo di lei che mi si appoggiava sulle spalle. Mi sentivo sporco. Mi ero davvero innamorato di una donna incontrata per strada? Di una donna spiata per strada? Dopo solo un anno dall’incidente? Mi ci era davvero voluto un solo minuto per immaginarmi nel letto con quella donna a parlare del mondo che avevamo visto separati e dell’universo che avremo invece visto assieme? Perché avevo subito pensato che a Dalila la pioggia dava invece fastidio quando le accarezzava la pelle ed avevo provato pure un certo fastidio nel ricordarla in quell’istante?

Non sapevo darmi quelle risposte, non sapevo dove poter cercare le risposte. Poco dopo mi ero ritrovato al volante della mia auto, a metà strada dalla spiaggia al cui molo era ormeggiata Earnest, la nostra barca.

Tutto quello che so ora è che sono qui…solo…alla deriva.

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