Risacca #31

Sedava solo, Alvaro. Rigirava tra le mani un fazzoletto di carta umido. Lo stava accarezzando nervosamente ormai da una buona mezz’ora. Sempre nello stesso punto. L’aveva assottigliato a tal punto da avere solo una velina tra le mani. Una piccola nuvola polverosa si generava dalle sue estremità che solevano carezzare il viso di Cloe. Il suo sguardo per una volta era tornato immobile, si era poggiato su di un puntino distante al confine del sistema solare. La sua mente percorreva in bilico il suo percorso su quel filo tracciato tra gli occhi e la stella distante. Camminava dritto, sicuro, senza incespicare, ma senza comprendere veramente dove si stesse recando e la pericolosità di quella traversata spaziale. A pochi centimetri da una caduta sempiterna. Migliaia di chilometri di distanza da un cuore stanco, che batteva al ritmo della rotazione un ingranaggio consumato, i cui denti a fatica riuscivano a fare ancora presa su quelli del compagno vicino, scivolando spesso in mancanza d’olio. Alvaro ricordava bene quella sensazione ed ora che la sua anima era stata costretta a rifarci il bagno ed insozzarcisi aveva la nausea. Sedeva su quella sua sedia, quella sedia che aveva sopportato ogni sera il suo peso sormontato da quello delle preoccupazioni mai condivise. L’avevano comprata assieme in un negozio che avevano visto rincorrendosi per gioco durante la loro vacanza in Toscana. Alvaro stava correndo poco di fronte a Cloe, badando a non lasciare troppo distacco tra di loro per poter continuare a godere delle risa di lei, chiare, cristalline. Aveva voltato lo sguardo per un attimo venendo folgorato dalla scritta che occupava la metà superiore della vetrina che stava superando. Si era fermato di colpo e, così, Cloe lo aveva raggiunto saltandogli cavalcioni e importunandogli i fianchi con le sue dita sottili. “Aspetta, aspetta. Dai piantala ho detto! Ahahahahah! Smettila, guarda qua un secondo.” Nel dire queste parole aveva indicato quell’ampia vetrata su cui campeggiava un’elegantissima, quanto screpolata, decorazione fatta a mano “Elpìs – Nulla è perduto”. Le lettere erano miniate in un verde militare ormai spento dagli anni e ripassate di bordeaux. Tutto intorno piccoli fiorellini e ghirigori incorniciavano le parole. Entrambi erano rimasti in silenzio per una decina di secondi ad ammirare prima la decorazione, poi spingendo i loro occhi all’interno della stanza illuminata appena dall’arancione carico di rosso del tramonto fiorentino. Una serie di libri sciupati e umorosi occupavano degli scaffali finemente intarsiati in legno massello. Le copertine erano di ogni colore si potesse immaginare. Ai piedi di questa libreria si estendeva un tappeto altrettanto colorato, quasi come se i libri formassero una cascata per tutta l’altezza del pezzo di mobilia in quel loro alternarsi di colori incalzante. Fino a raggiungere il suolo, dove lo sguardo veniva improvvisamente fermato e lo scorrere dei colori si facesse di colpo più molle e rilassato, come nel bacino sottostante di una cascata, appunto. Percorrendo il flusso lento dei colori si incontrava nel mezzo della stanza un piccolo tavolino treppiedi, che cominciava a piccole volute dal basso. Uno stelo conduceva poi più in alto sino al piano di appoggio circolare, su cui si riposava un centrino finemente lavorato ed una lampada in ottone. Severa nel suo sguardo monoculare. Era rivolta a sinistra, la sua lampadina aveva un vetro ormai affumicato dalle ore di lavoro e strizzava stanca l’occhio al comò che, brusco, interrompeva la corrente colorata del tappeto. Questo avevano fatto in tempo a vedere entrambi prima di scambiarsi uno sguardo innamorato e precipitarsi all’interno del negozio di antiquariato. Non si sarebbero aspettati di trovare seduto dentro a quel negozio un ragazzo giovane. Era il proprietario di quel piccolo pezzetto di paradiso ammuffito in terra. Il giovane sedeva su di una poltrona in pelle consumata, sgualcita sui bordi delle imbottiture. Questa era in una posizione strategica, per cui gli ultimi raggi di sole della giornata riuscivano a colpire le pagine del libro che teneva aperto di fronte a sé. Cloe ed Alvaro, entrambi si erano innamorati di lui quando Callisto aveva raccontato che, per tutta la bella stagione, quello era per lui il segnale della chiusura del suo negozio: quando i raggi di luce terminavano di far rosseggiare le parole che stava tranquillamente ingollando. Allora si alzava dal suo trono, lentamente spegneva la lampadina affumicata sul tavolino e se ne andava. Mentre Alvaro ascoltava la voce appassionata ed al contempo quasi trascinata di Callisto, il suo sguardo stava navigando tra la polvere e le cianfrusaglie che sembravano gettate alla rinfusa in quel luogo magnifico. Infine si era sentito prendere per un braccio da Cloe: “Guarda!” aveva detto lei indicando come avesse appena visto il più grande trifoglio del mondo. Alvaro aveva sussultato (e Callisto con lui). Seguendo il braccio nudo di lei, al termine dell’indice stava una sedia. QUELLA sedia. Non era una sedia diversa dalle altre. In legno, la seduta impagliata, bianca. Aveva un graffio su una delle gambe laccate. Alvaro non capiva perché Cloe fosse così eccitata a quella visione. Si era perciò voltato con uno sguardo sperduto verso il viso di lei. Proprio uno di quegli ultimi raggi stava solcando l’aria di quel salone e dei minuscoli fiocchi di polvere ballavano sotto quell’occhio di bue naturale, a pochi centimetri dalle sue guance. “È disarmante la dolcezza del suo viso con questa luce” aveva pensato Alvaro. Cloe, quasi sconsolata, lo aveva allora spronato a guardare meglio “Ma non vedi sullo schienale?”. Lo sbadato aveva allora di nuovo ruotato il collo verso la sedia. Le sue labbra avevano allora disegnato l’arco più maestoso che su quel volto si fosse composto. Il suo cuore batteva forte ora. Gli occhi gli si erano un poco inumiditi e brillavano della stessa luce di quelli di lei. Sullo schienale erano incise due lettere.

C A

“Forse era stato Carlo Agliari, un ragazzino antipatico e maleducato che invitato a casa degli amici dei suoi genitori, durante le tediose discussioni tra adulti, preso da noia, aveva inciso le sue iniziali su quella sedia.” Così aveva immaginato Cloe. Ma poco importava. Di fronte a loro c’era ora quella sedia. Alvaro non aveva pensato due volte e l’aveva comprata, pagandola dieci euro in più del prezzo chiesto da Callisto. Era la loro sedia. Una sedia comune. Una sedia unica.

Ora Alvaro stava passando l’unghia del mignolo su quelle due lettere. Mentre continuava a fissare quel puntino. Cloe non sedeva più di fronte a lui. Da qualche giorno ormai non occupava più quel posto sulla sua poltrona. Ma rimaneva l’impronta del corpo di lei nel suo cuore. Pesante l’impronta. Pesante il cuore. Poche lacrime avevano segnato il suo volto questa volta. Quello stesso volto che poco prima lei riempiva di baci. Ora si stava sfaldando piano, come una candela lasciata sotto il sole per troppi giorni di fila. Come quel fazzoletto che aveva ormai disintegrato e polverizzato. I pezzetti volavano ancora nell’aria, ma non ballavano come quelli toscani di qualche anno prima. Gli riempivano le narici e poi i polmoni. Gli otturavano quei buchi vitali. E gli occhi bruciavano sui bordi, senza però lasciar uscire quelle gocce di sangue trasparente e salato. Tutto intorno a lui si era fermato. Non aveva voltato le spalle nemmeno per un secondo Cloe andandosene. Forse addolorata ed arrabbiata con se stessa. Forse, più semplicemente, non più innamorata. Alvaro doveva trovare una nuova sedia su cui sedersi ora.

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