Risacca #26

Ho chiuso il mio museo. Mi sono assicurato che fosse serrato a doppia mandata. Le sbarre alle finestre e nessuno alla biglietteria a vendere quei pezzi di carta per l’entrata. È chiuso per tutti, ma ho lasciato quella porticina aperta per te. Sei tu che sai quando e come poterci entrare. Ho levato da tutte le opere d’arte l’avvertenza “vietato toccare”. Tu puoi fare anche quello. Ti ho lasciato entrare sbattendo fuori migliaia di visitatori, per lasciar godere solo te dei quadri dei miei ricordi, delle statue delle mie paure, delle poesie dei miei sentimenti. Ci sono fogli di carta ingialliti e profumati di lacrime salate. Pezzi di vetro delle speranze infrante, che ho raccolto tagliandomi le dita ed ho esposto negli angoli meno illuminati. Ho aspettato che tu entrassi per accendere su queste mie opere segrete la luce del mio amore. Ti ho mostrato anche tutti i miei bozzetti, tutte quelle linee che non sono riuscito ad armonizzare e che ho accatastato in quella pila degli scarti. Non le ho gettate, ma ho lasciato nell’ombra anche quelle. Tu sola hai avuto la possibilità di scartabellare fra esse, lasciando che l’odore pungente della muffa ti solleticasse il naso. Ti sei sporcata le dita di un inchiostro poco consono ad attecchire su quella cellulosa, ed ora ti sei toccata il viso pittando, senza volere, i segni del guerriero indiano più valoroso. Ti sei avvicinata ai miei dipinti più riusciti, densi di colore, dalla tela pesante. Non sempre li hai capiti, ma hai provato in tutti i modi a guardarli da mille posizioni differenti. Hai lasciato scorrere i tuoi polpastrelli sulla pittura per comprendere dove fosse più spessa e dove io avessi messo più amore nella pennellata. Non sempre hai creduto che avessi eseguito io un dettaglio dell’opera e mi hai chiesto a quale maestro avessi chiesto aiuto per quel particolare. Ma, lo sai, per queste cose non chiedo aiuto. Scaturiscono da me e me solo. Le emozioni si gettano sulla tela ad imbrattarla senza sosta, un po’ a casaccio. Quando hai messo il piede nell’androne delle statue, poi, ti sei spaventata. Ti sei prima coperta gli occhi e mi hai domandato da quale incubo fossero nate quelle creature spaventose. Hai provato prima terrore e poi compassione per me. Hai lasciato che i riflessi di luce rimbalzassero sulle figure squadrate per andare quindi a colpire fastidiosi i tuoi occhi verdi-marroni. In quel momento hai stretto la mia mano un po’ più forte, forse per rassicurarmi del fatto che da quel momento non avrei più ospitato nei miei sogni quei demoni. Solo tu avresti occupato lo spazio dei miei deliri. O, almeno, questo io ho percepito. Ho lasciato tutto il mio museo aperto solamente per te, senza fretta, per esplorarlo in tutti i suoi angoli. Il percorso era segnato e tu lo hai seguito per comprendere cosa ci fosse dentro di me. Hai visto quasi tutto e, poi, quando sei giunta all’ultima stanza, sei stata investita dall’emozione. Luminosissima, tutto parlava di te. Sei rimasta ad adorare il tuo simulacro levigato sino a risplendere, con i capelli scolpiti uno ad uno. Hai creduto di specchiarti per un secondo. Hai poi lasciato che il tuo sguardo si poggiasse sui luoghi della nostra vita, dipinti ed appesi in cornici intarsiate. Hai rivisto ogni singolo momento di gioia e sofferenza, mentre le lacrime si cominciavano ad accalcare sul ciglio delle palpebre. Ma hai lasciato che si gettassero a rotolare sulle tue guance solo nel momento in cui hai notato in quella teca preziosa le migliaia di fogli che ho riempito per te, per descrivere la tua bellezza e la tua fragilità. E solo ora ti accorgi che la più dolce delle melodie ti ha accompagnato nella visita di questa ultima stanza. Ti stai facendo coccolare da quelle note socchiudendo gli occhi. Non uscire da questa stanza, rimani qui con me. Appoggia la tua mano sul mio cuore e l’altra sulla mia spalla. Balliamo assieme ancora. Balliamo nel museo delle mie emozioni. Scalzi.

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