L’attracco

Sto attraccando una barca al molo. È malconcia ed ormai pesante di tutte quelle chiazze di vetroresina che la fanno somigliare più ad un dalmata spelacchiato ed affaticato. Mi sono azzardato ad avventurarmi in un mare che non conoscevo se non per sentito dire e che credevo di poter affrontare con agilità. Nessuno mi aveva avvisato di tutti quegli scogli taglienti che sporgono a gruppetti qua e là, quando il fondale si riavvicina a sfiorare il sole. Sto scegliendo quale cima usare per fermare questo legnetto intriso di acqua salata sia sotto che sopra, dove le lacrime ed il sudore si sono mescolate con qualche goccia di sangue a tratti. Vicino al porto tutto è calmo, una stasi che quasi mi preoccupa. La quiete che precede una nuova avventura. Sto terminando di sistemarmi la barba, mi lavo per bene viso e mani cospargendole di abbondante crema per camuffare le crepe sulla pelle, una camicia che sia rimasta decente a coprire il mio corpo e la collana che ho conservato al riparo da ogni intemperia ad adornarmi il collo. Mi imbelletto per come posso per poter affrontare a testa alta tutte quelle persone che per un po’ incrocerò nel porto. Mi aspetto i loro sguardi a tentare di carpire chi sia, da dove venga. Curiosità mista ad invidia, una parte di timore e diffidenza. Non che mi interessi del loro giudizio, ma aspetto che qualche Anima che mi somigli si avvicini per far combaciare la sua ferita sul braccio con quella mia, a lasciare l’osmosi dei sentimenti fare il resto. Incrociare gli sguardi senza parlare, far scorrere il dolore tra i corpi come due veleni che incontrandosi si annullano vicendevolmente.

Lasciato quel porto mi addentrerò un poco nel continente. Mi hanno detto che ci sono delle pareti fenomenali da scalare più all’interno. Dopo tanto navigare per acqua ho bisogno di immergermi da un altro elemento naturale. Voglio abbracciare quelle rocce secche ed aride. Nel porto avrò raccolto i consigli su come affrontare, a dovere questa volta, la via su quello spigolo. E l’Anima che mi avrà guarito sarà la mia compagna di scalata, di cui devi fidarti per forza, nelle mani della quale metti per più di un momento la tua vita, sicuro che saprà contenere la tua caduta e che da più in basso vedrà gli appigli che tu non riesci a discernere. Nel camminare verso quell’ascesa perigliosa ci fermeremo più volte, ad ammirare le foglie che ammantano il bordo del sentiero, ad annusare tra gli alberi il muschio ed il profumo dei funghi, evitando ogni parola ché superflua a soverchiare il magico sordo rumore dei piedi che poggiano sulla Natura. La sera ci fermeremo ad invocare il fuoco, arrostendo patate e bevendo infusi di erbe. I nostri visi paonazzi del riflesso dell’instancabile energia che ci arde di fronte. Ed una di quelle sere il silenzio sarà finalmente rotto dopo i lunghi discorsi fra le Anime soltanto “Sapevo che il Mare mi avrebbe portato il mio compagno di scalata”. Null’altro. Un fremito percorrerà i corpi, che ne risuoneranno tutta la notte.

Infine, attraversato l’ultimo stretto passaggio tra rovi e fogliami sempre stringendo forte a vicenda le nostri ora rinvigorite mani, ci si aprirà di fronte l’atterrente spettacolo di quel magnifico spigolo illuminato dal Sole. Ci guarderemo negli occhi tremebondi, con il cuore che quasi scoppia di gioia. Incominceremo la scalata, solo dopo aver speso una mezz’ora buona a rimirare dal basso quella creazione sovrumana ed esserci assicurati a vicenda del buono stato delle nostre attrezzature. Ci guarderemo negli occhi una volta di più, per degli istanti interminabili, senza parlare.

Una presa alla volta, un piede dopo l’altro, senza fatica. Lassù esiste solo chi arrampica. Sei da solo mentre pensi a dove aggrapparti per avere la presa migliore. Non esiste altro al di fuori di quel muro e lo accarezzi col tuo corpo ad ogni piccolo strappo. La mente si libera degli orpelli già dal primo metro di ascesa. Si accerta di non dover appesantire il corpo che si sta facendo carico di accompagnarla a contemplare un nuovo scorcio. Di là su, il Vento per un attimo smette di soffiare, e si appoggia su quello sperone affianco. Gli occhi puntati a quei due tracotanti ed adorabili esserini che assieme e da soli affrontano la scalata. Trattiene il fiato: è ammirato, preoccupato e non vuole infastidirli mentre fanno l’amore con la Terra. Sospesi da suolo siamo leggeri. Quando metto la mano sulla sommità il i miei occhi guizzano a cercare la sagoma della mia Anima compagna, assicurandomi di farle godere degli ultimi metri di salita senza preoccupazioni. Le tendo la mano. Appoggia i piedi affianco ai miei e chiudiamo gli occhi assieme. Quando li riapriamo scorgiamo il percorso fatto sino a quel momento. Il porto è là lontano, si intuiscono a malapena le barche attraccate e tra quei puntini mossi dal mare mi immagino anche il mio, raffazzonato. Sento che la sua mano cerca la mia mentre il nostro sguardo ripercorre quel sentiero che ha fuso in un solo pezzo le nostre Anime. La salita ha rinsaldato quel legame, limando quelle piccole bave che rimanevano. Ed ora stiamo ad ammirare fianco a fianco quella palla arancione enorme che rende tutto più caldo. Ci abbandoniamo esausti al suolo, ridendo.

Non abbiamo più parlato da quel giorno di fronte al Fuoco. E sento di non dover parlare per il resto dei miei giorni, fintanto che le nostre cicatrici sapranno curarsi.

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