Risacca #36

Seduto sul muretto, i piedi lasciati al loro peso. Mi protegge da dietro un’insegna. Punte di giavellotto tutt’intorno, una corona a rendere solenne l’ovale fatto in quattro. Drappi colorati a render più magnifico il tutto. Eppure, i colori non sono più quelli di una volta. Mille piccole bolle arancio e marrone tappezzano quel simbolo di potere: la Natura che ancora una volta sbeffeggia l’uomo. Ricama sul duro ferro un tessuto cicatriziale sporco ed irregolare, con pochi ammiratori. Il malconcio scudetto ristà, al di sopra del cancello stretto, in tutta la sua smisurata ed inutile altezza. Perché l’avranno fatto così? Quale spreco di materie prime. Non mi sorprende però. Ci affrettiamo sempre a mostrare di avere questo più grande, quello più colorato, quest’altro più costoso e raffinato. E ci dimentichiamo spesso di colorare e raffinare l’anima, ingrandire ed impreziosire il giardino delle emozioni. Ma sono contenti così. Loro ci guardano e giudicano l’altezza del nostro cancello. Quante punte lo adornino e di quale materiale sia fatto….un cancello.

Però devo ammettere che le mura intorno hanno il loro fascino. Tanti piccoli mattoncini, allungati, pieni, pesanti, lo si vede. Allineati con cura. Si rincorrono a volersi toccare. Eppure sono congelati in bell’ordine, a poca distanza gli uni dagli altri, costretti a percepire la presenza del vicino senza mai giungere a lambirlo.  Che sorte grama, dovrete convenire con me. E poi, mi accorgo che poggiano, tutti allineati, su quelle pietre appena sbozzate. Tufo, di certo, posso vederle implorare di lasciarle che si sgretolino. Sono fragili, ma sorreggono cotanto peso. Da secoli ormai. Tutto è in ordine, squadrato, appena arrotondato dalla conta dei giorni. Eppure, mi rendo conto di come sarebbe tutto così sterile, così poco romantico ed un poco decadente se su quei mattoncini non fosse cresciuto uno straterello di bruno muschio. Se dal terreno delle rose non avessero lanciato i loro arpioni per arrivare ad abbarbicarsi un poco più in su.

E, mentre penso a come sempre il divino riesca a mettere il mascara anche al più recalcitrante, severo ed austero dei volti, una coppia di gabbiani prosegue il suo volo. Contro questo cielo offuscato dell’afa di Agosto. Cosa ci fanno qui? Distanti dal mare e dalle loro amate onde! Percorrono le loro traiettorie, divisi, eppure assieme, tenendo l’uno d’occhio l’a;tra, pronti a scambiarsi il ruolo da leader alla bisogna. Mi accompagnano lo sguardo, a voltarmi un poco, sino a raggiungere quel quasi completo tondo grigio che si staglia a fatica in questa luce ancora troppo vivida. Non posso ancora godere della sua fioca lampadina che rende tutti i corpi nella notte un po’ più freddi, un po’ più intriganti. Aspetterò, stasera non ho fretta, in più ho inchiostro e carta a volontà: nulla potrebbe andare storto. Abbasso lo sguardo, sorridendo delle mia Anima, diversa, solitaria, sofferente a tratti. Ed il verde mi investe gli occhi. Vigne sotto di me, si distendono ad ammantare il lieve clivo. Alla sinistra una piccola chiazza più chiara: gli ulivi. Sembrano l’ultima legione di valorosi rimasta a difendere il terreno dall’inesorabile avanzata delle linee nemiche, armate di dolci e succosi grappoli. Tra questi minuti soldati svettano due, baldanzosi. Il generale ed il tenente, due cipressi, uno più alto, l’altro non di troppo più corto. Rimangono di poco defilati a poter godere dello spettacolo della vittoria imminente mentre caricano lo spirito delle prime linee. Una battaglia silenziosa di cui godo io da quassù. Tre lampioni si illuminano intanto a sinistra, dietro gli ulivi coraggiosi e, di rimando, in alto alla mia destra un quarto si infuoca. Preannunciano la resa incondizionata del giorno, pronto ad addormentarsi, ormai pago di questo panorama semplice e maestoso.

Quando me ne andrò vorrei farlo come gli ulivi, sopraffatto dalla Natura. Dopotutto cosa potrebbe esserci di più romantico e panico di questo!? Essere schiantato da una fila di robusti alberi che tornano a baciare il suolo, dal fronte roboante della slavina che accelera sotto gli ordini della gravità, dal muro di acqua che irride le barriere degli omuncoli, essere consumato dalle lingue ardenti dell’incendio che provano a lenire le ferite leccandotele. Tornare ad essere uno con il divino, con tutta la veemenza e violenza che questo processo comporta. Veniamo al mondo, dopotutto, tramite il Parto: quanta violenza risiede in quel momento di gioia? Ma non ce ne rendiamo conto, perché annebbiati dalla felicità delle urla di dolore di un bambino. Quel bambino che sta solo implorando il boia di rimetterlo dove stava, al caldo del ventre dove riusciva ad odorare il divino. Perché, allora, dovremmo lasciarci spaventare dalla nostra seconda nascita? Quella con la quale ritorniamo ad essere parte di quel mondo che coi primi vagiti palesavamo di anelare con tutta l’aria che i due nostri minuscoli ed annacquati polmoncini ci consentivano! Ed ora, ora vogliamo soltanto rimanere aggrappati ad un freddo tavolo d’obitorio. Quel tavolo su cui, ancora coscienti, altri a noi simili (o nemmeno poi così tanto) ci dissezionano. Ci misurano le membra per poterci catalogare tra coloro con le dita lunghe, quelli con la vita più stretta, quelli con gli occhi più tondi. Se solo sapessero vedere attraverso quegli occhi. Dimenticarsi della loro forma, rimanere ciechi al loro colore cangiante e raggiungere finalmente, un poco più dentro, l’Anima di cui loro stessi sono portatori. Conoscerebbero colori nuovi, sapori unici ed odori che riuscivano a sentire solo nel ventre materno. Quanta ignoranza del divino mi circonda. Quanta poca volontà di ricostruire il nesso che ci legava, invisibile e solubile solo per i polpastrelli caldi ed umorosi più savi.

Mentre questi pensieri agrodolci mi investono, il cielo si è lentamente svestito, silenzioso, del suo abito da giorno: come un’amante discreta è scivolata nel suo vestito da sera, più scuro, lasciando scoperto solo quell’ora luminosissimo ombelico. Quel bottone che ammalia. Di cui tutti possiamo godere, ma che solo chi conosce il divino ed i segreti dell’Anima saprà ammirare in silenzio, su di un muretto, protetto dallo scudo arrugginito, sognando un giorno di poter tornare a far l’amore con violenza, come gli ulivi schiantati dalle viti e dai cipressi.

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