Risacca #37

Giunone aveva gettato i capelli dietro le spalle. Lasciava che cadessero sulla nuca e poi giù tra le scapole. Si poggiavano a formare una “V” scalata che invitava lo sguardo a seguire le forme del corpo. Il suo sorriso era solo un tassello luminoso nel mosaico di bellezza che le sue membra componevano, centimetro per centimetro. Era nuovamente maestosa, squillante nello sguardo e le sue spalle avevano ripreso posto alte, fiere e modellate dalle intemperie. Il suo corpo pareva fare tutt’uno con la parete rocciosa che si ergeva pochi metri dietro di lei, decorata da edere giovani. La sua aura sembrava scavare nell’aria una nicchia, come una di quelle vestigi di martire modellate dall’uomo, incastonate nella pomice, un po’ santa un po’ no. Lei rimaneva sospesa con lo sguardo, modellata dal Divino, un po’ invincibile un po’ no. Incrinata e raffazzonata alla bella e meglio dentro, con un’armatura di soave indifferenza ad ammantarla di fuori.

All’improvviso qualcosa si ruppe, come una corda tesa che si strappa, con un rumore netto, uno schianto nell’atmosfera ieratica. Ella mosse lo sguardo che malcelava tutta la paura e l’incertezza di cui si era nutrita sino a poco prima. Si fermò sul corpo di Sigfrido, inginocchiato su quell’unico cerchio di erba riarsa. Un contenitore vuoto. La sua anima si era di continuo riversata a piccole gocce, ad innaffiare i campi riarsi delle anime circostanti. Ogniqualvolta queste stille toccavano terra venivano assorbite voracemente, senza lasciar traccia, da quelle zolle amare ed infertili. Un lento sgorgare di tubatura mal sigillata, impossibile da interrompere, incredibilmente irritante, assolutamente futile e dispendioso. Così quel corpo si era liberato della maggior parte del suo nobile contenuto. Un otre graffiato dall’uso ed accartocciato sotto il suo stesso peso, ora che leggero. Una bottiglia instabile, continuamente traballante sotto i soffi gelidi della vita, ora che riempita di sole due dita di acqua.

Quasi immobili, sembravano miniature di uomini in quel bosco che li accoglieva, umido. Un ventre verdeggiante ed ombroso. Dipingevano coi loro corpi una strana “Annunciazione”, un imbarazzato incontro tra un angelo esanime dalle ali spezzate ed una Maria fintamente troppo altezzosa per accettare di portare in grembo un figlio su ordinazione. Sigfrido alzò la fronte con la poca forza d’animo che lo permeava, appoggiando tutto il suo peso sui talloni. “Non ti tedierò più con le mie elucubrazioni ed i sillogismi stringenti. Non chiederò mai più in prestito al barbiere divino il tanto affilato, quanto doloroso, rasoio di Occam. Non chiamerò più in causa il cubo di Necker, dell’architetto delle nuvole, per darti prova della mia visione. Ho terminato le armi del raziocinio: il tuo gemere ha sbriciolato ogni randello ed alabarda della ragione. Io abbandono questa lotta improba, ora che da sconfitto posso lasciare il campo. Ora che ho versato senza misura nel vaso della tua infelicità il mio affetto temprato”. Lei lo ascoltava, mentre un temporale le montava dentro. Egli continuò “Quello che rimane è una pozza malsana. Come quando distilli la più pura delle essenze lasci dietro di te una poltiglia maleodorante ed indistinguibile di composti, così ho spremuto dagli occhi e dalla bocca i balsami per la tua anima, pur sapendo delle impure sostanze che avrebbero occupato di lì a poco, informi, il fondo del mio stomaco. Ma ora che ho terminato questi oli essenziali di cui ti ho cosparso il corpo segretamente e contro il tuo volere per lenire i muscoli indolenziti, non mi rimane che affrontare l’amarezza che contraddistingue gli avanzi di questa operazione.” Giunone era ora un po’ turbata e tornava il cristallo del suo cuore a stridere contro l’armatura fredda. “Non ti parlo per impietosire! Dio me ne guardi! Vorrei solo tu capissi come da questa pozzanghera maleodorante nuova vita prenderà le mosse assieme a vecchi arbusti. Si tratta di voler lasciar spazio al bene che sa crescere negli anfratti più angusti, un muschio che non necessita di terra soffice per aderire e creare il più morbido e profumato dei cuscini. Quell’acqua sporca saprà nutrire il tronco del gelso e dei rovi, indistintamente. Quali more scegliere, sarai solo tu a deciderlo. Potrai raccogliere comodamente accucciata quelle più piccole e sugose dei cespugli qui in basso: ti sembrerà una benedizione e snobberai quelle che svettano alte sui rami dell’albero. L’idillio durerà solo fino a quando le spine non graffieranno la tua pelle delicata, lacerandola, portando allo scoperto quegli strati più sensibili al dolore. In quel momento ti accorgerai che, forse, la comodità di avere i piedi a terra non supera quella di poterti muovere senza porre attenzione alla presenza di pungiglioni. Allora ti verrà voglia di raggiungere le more alte, quelle più bitorzolute. Ti arrampicherai e godrai di quel processo di scalata. Raggiungerai i primi frutti ansante e col sorriso. Farai scorpacciata di quelle more, mentre ti dondolerai a testa in giù con le gambe serrate attorno ad un ramo. Presto ti accorgerai che più che delle more, ti sei innamorata dell’albero, ti sei innamorata dei grossi rami che si dipanano dal tronco centrale. Amerai, sopra tutto, il panorama che potrai ammirare di là in alto. Alla fine desidererai passare il resto dei tuoi giorni su quel gelso, dimentica delle chiazze di arbusti che solleticano cariche di frutti i piedi della tua nuova casa.” Sigfrido sembrava un panno strizzato che tornava ad asciugarsi sotto la forza di torsione, stava impallidendo più di quanto già non fosse bianco in volto con quella goccia fredda di sudore incastonata tra le rughe della fronte. “Sarai tu a scegliere l’albero su cui abitare. Questo è vero. ma non sceglierai tu quale vegetazione troverà modo di trarre vigore da quello che resta della tua anima. Rimarrà traccia di dolori passati, di errori presenti e, spesso, questi troveranno più facilmente la via nel profondo delle tue viscere. Cresceranno con lunghi fittoni, facendosi strada senza remora alcuna. Alcuni raggiungeranno i nervi più scoperti, che tu nascondevi sotto foglie marcescenti. Batteranno così forte su quei nervi e li stritoleranno così forte che tu vorrai solo urlare in certi momenti. Ti vorrai bucare la pancia ad estirpare quelle maledette propaggini di dolore. E delle volte non potrai fare altro che imparare a riconoscere quale nervo è il più debole, quale soffre di più allo stritolamento e convivere con un dolore sempre più sordo. Perché, in fondo, tu vivi là in alto. Sul gelso. Circondata da more. Libera da nuove spine. A godere del panorama più mozzafiato che potessi immaginare.”

Giunone aveva lasciato andare ogni parvenza di superiorità e stava lentamente raggiungendo Sigfrido al suolo. Ora i due sembravano uno l’immagine riflessa dell’altra. Nessun rumore osava interrompere quella comunanza di vuoto interiore. Ogni armatura era caduta, ogni spada era stata sbriciolata. Rimanevano radici e more. Ed erano tornati a vivere mangiando un po’ le une e le altre. Rincorrendosi sugli alberi. Piccole macchie di colore incuranti del dolore.

more-di-gelso

Lascia un commento